La lezione di stile di Mila Schӧn ieri, oggi e domani

Di Enrico Maria Albamonte

“La semplicità è un’arte” scriveva Paul Valéry. Negli oltre suoi 50 anni di storia Mila Schӧn ha fatto suo questo mantra puntando su quello che tuttora in azienda definiscono ‘lusso radicale’. Correva l’anno 1958 quando Maria Carmen Nutrizio, (questo il vero nome della signora dello stile) dalmata di origini, figlia di un farmacista e di una esponente della dinastia Luxardo, sorella di Nino Nutrizio fondatore e direttore del quotidiano milanese ‘La Notte’ e signora dalla formazione alto borghese, apriva il suo atelier in via S. Pietro all’Orto nel cuore di una Milano in fermento per la fioritura del Boom. Erano anni eroici in cui Roma era inebriata dalla Dolce Vita, mentre il capoluogo lombardo era teatro di importanti innovazioni nel mondo dell’arredamento di stile e dell’architettura trainato dai Zanuso, dai Castiglioni, dai Giò Ponti, dai Magistretti, dai Fornasetti e dagli altri alfieri di un modernismo di matrice geometrica. 

Mila Schӧn

Sfoglia la Gallery

Quello stesso fenomeno coagulò rapidamente il consenso della operosa e facoltosa borghesia padana. Il rigore e il nitore del design milanese diventò la cifra di Mila Schӧn, sarta suo malgrado senza saper cucire né tagliare, ma ciononostante creatrice di moda colta, sensibile e raffinata. La sua première Enrica non attaccava neppure un bottone senza chiedere il suo parere. A lei si addice come a nessun altro l’aforisma di Coco Chanel “La moda passa ma lo stile resta”. Perché di stile puro si tratta, legato a doppio filo a un understatement tipicamente lombardo. Quando nel 1965 il grande anfitrione della moda italiana, il marchese Bista Giorgini, la invitò a sfilare a Firenze sull’ambita pedana della Sala Bianca, a Mila parve avverarsi un sogno. Erano gli anni in cui si stavano facendo avanti nel gotha dell’Italian Style nomi come Valentino, Capucci, Lancetti, André Laug, Renato Balestra, Fausto Sarli, Rocco Barocco, Milena Francesio, Clara Centinaro, Raffaella Curiel e l’ingiustamente dimenticato Federico Forquet. Cominciata per scommessa dopo il divorzio dal facoltoso marito di origini austriache Aurelio Schӧn che le dette l’amatissimo figlio Giorgio e che finanziava le sue trasferte parigine alla ricerca delle più favolose ed esclusive novità di couture di Balenciaga, Jean Dessès e Christian Dior, l’avventura nell’alta moda della distinta gentildonna cresciuta a Trieste, nel cuore della Mitteleuropa, fu coronata dal primo, grande successo.

La giovane signora, amante della canasta e della velocità, conquistò la platea di Palazzo Pitti con una collezione fresca ma rigorosa tutta giocata su un’ampia gamma di nuance del viola orchestrata per una donna spigliata, giovane e razionale in un mix irresistibile di chic e funzionalità. “La sua moda è soprattutto portabile e va per strada senza impaccio” scrissero allora di lei i quotidiani. E fu subito standing ovation. Come chiosò Diana Vreeland, la sacerdotessa della moda, negli anni’60: “la sua linea, in apparenza spoglia ma preziosa, ingentilisce tutte le donne; con lei è nato un nuovo status symbol: l’eleganza senza ostentazione”.

L’eleganza asciutta ma decorativa di Mila Schӧn valse a Marella Agnelli e a Lee Radziwill il titolo di best dressed assegnato dal Women’s Wear Daily di Fairchild grazie a due sontuosi abiti da gran sera ricamati in bianco e argento della maison sfoggiati dalle due socialites allo stesso, mondanissimo ballo di Truman Capote al Plaza di New York nel 1966 organizzato per soli 520 happy few. Ben presto la lista delle celebri e blasonate aficionados della signora di Trieste arrivò ad annoverare Ira Furstenberg, Farah Diba, Virna Lisi, Nancy Reagan, Catherine Spaak, Mina, Milva, Jackie Kennedy, Valentina Cortese, le Moratti e Maria Pia Fanfani che indossava un suo modello al matrimonio del secolo, quello fra Carlo d’Inghilterra e Diana Spencer, nel 1981. Mila è una creativa che ha sempre volato alto. Nel 1968 infatti l’Alitalia le affidò il compito di disegnare il nuovo look delle hostess della compagnia di bandiera tricolore. Le divise, sobrie ed eleganti, declinate in verde e blu, portarono ad alta quota il gusto raffinatissimo di questa signora minuta ma decisa.

E così Mila traslocò al 2 di via Montenapoleone dove si insediò la sua sartoria, passata indenne dalla bufera sindacale degli anni di piombo. Alla fine la sua strenua difesa dell’alta moda ebbe la meglio grazie ai suoi ‘oggetti puri per donne razionali’ per citare la sua musa Benedetta Barzini, donna intelligente dalla ieratica bellezza neorinascimentale. La sua lezione di stile non contraddiceva affatto il suo senso per l’arte: Klimt, Vasarely, Mondrian, Pollock, Calder, Noland le ispirarono nuove geometrie e nuovi sofisticati cromatismi che le valsero il premio Neiman Marcus per il colore nel 1966. Ma l’artista che legò a lei il suo nome più di altri fu Lucio Fontana che definiva le sue tele ‘concetti d’arte’: a lui la creatrice, ormai diventata la più richiesta dalle dame altolocate di via Montenapoleone e di Park Avenue, dedicò intere collezioni. Questi modelli, indossati dalla bellissima Benedetta Barzini, una delle più celebrate modelle italiane, scoperta da Diana Vreeland a New York, furono immortalati in memorabili campagne pubblicitarie dal carismatico fotografo Ugo Mulas, habitué del Bar Giamaica nel quartiere bohémien milanese Brera e amico di Burri e di Consagra. Mila eccelse in tutto ciò che inventava: dai mitici cachemire double brevettati da Agnona e perfettamente reversibili, agli incantevoli chemisier di seta imprimé animati dalle fantasie da lei stessa disegnate per la sua Schӧntess, creata anche grazie al supporto del suo manager e consigliere Loris Abate per gestire la produzione e la commercializzazione di tessuti di alta moda e prȇt-à-porter. Fino ai suoi opulenti e stilizzati ricami realizzati da Pino Grasso, il Lesage italiano (il preferito di Ferré e Donatella Versace), per abbellire abiti gioiello a colonna che hanno ammaliato le donne più belle ed eleganti del jet set. La perizia sartoriale della leggendaria decana dell’alta moda si traduce in sapienti nervature in rilievo che nascondono le cuciture, in tagli magistrali che si evolvono in sottili virtuosismi grafici, in piegoline scultoree, in certosini ricami ‘a puncetto’ e in bluse romantiche ma intellettuali alla Virginia Woolf.

“E’ criminale pensare che una donna debba rinnovare il proprio guardaroba ogni sei mesi: oggi non usa più perché la vita è diventata molto cara per tutti” dichiarò in un’intervista la saggia creatrice di moda in tempi non sospetti. Intanto quella eterna e languida Roma che fu definita nel 1984 ‘moderna Bisanzio’ confermò la sua grandezza accogliendola a braccia aperte nel suo dorato calendario gremito di big. A luglio del 1983 per le sue nozze d’argento con la moda, al Ninfeo di Valle Giulia Mila presentò i suoi strepitosi abiti da gran sera vintage solcati da ricami grafici ispirati all’arte astratta insieme a un guardaroba rigoroso ma ricco, e molto contemporaneo, composto da: magnifiche giacche di astrakan percorse da impercettibili nervature, da scintillanti ricami di paillettes ispirati al vello dell’ocelot e ai grattacieli di Manhattan, da tailleur inappuntabili da banchiera in colori squillanti come il rosso lacca o il verde smeraldo, da sapienti abbinamenti di raso e velluto, da sfarzose pellicce lavorate a rombi ‘Arlecchino’ e da scenografici abiti di gala scarlatti arricchiti da romantiche onde e da spettacolari spirali plissettate, reiterate anche con esiti ancora più interessanti nelle successive collezioni di haute couture come in quella dell’inverno 1987.

Quella memorabile sfilata segnò la sua consacrazione nell’olimpo dell’alta moda internazionale. Nel 1993, dopo aver trionfato sulle passerelle della couture romana e parigina, la griffe, sinonimo negli anni’80 di profumi, moda maschile, accessori in pelle e tessuto, maioliche, ready-to-wear, spugne, bijoux e occhiali, è stata rilevata dal gruppo giapponese Itochu che sta riorganizzando l’assetto commerciale e manageriale della storica maison.

A partire dagli anni’90 la stilista viene coadiuvata da Anna Domenici, già assistente di Krizia, e poi dal trio Citron-Piaggi-Myler (poi passati da Ferré) ai quali subentra nel 2002 Marc Helmuth. I valori e i codici di stile della Schӧn restano comunque intatti nonostante i vari passaggi di consegne in ufficio stile: dopo la scomparsa della Schӧn nel 2008, il timone creativo è stato affidato prima alla pugliese Bianca Gervasio, poi ad Alessandro De Benedetti e oggi a Gunn Johansson. La designer svedese, da 25 anni in Italia, ha collaborato con Malo ed è stata arruolata ai vertici creativi di Agnona. Johansson sta rivisitando con garbo e saggezza l’archivio della maison cercando di attualizzare i suoi capi più iconici in un’ottica di lusso quotidiano ed effortless. Sempre convinta, insieme a Mila, che “una donna italiana si distingue sempre” e che “la vera eleganza è quella che non si fa notare”. “Oggi, in un momento di grande confusione soprattutto estetica, c’è un bisogno vitale della razionalità della signora Schӧn-dice Johansson-perché la sua è una moda fatta di sostanza, non di comunicazione, una moda che opera per sottrazione. Il suo gusto, lineare ma vibrante, è davvero senza tempo. Nulla di quanto Mila ha fatto, oggi, appare datato”. Nel frattempo Itochu ha internalizzato nuovamente la produzione, affidandola a laboratori milanesi e siciliani, al fine di garantire creazioni totalmente Made in Italy e per posizionare Mila Schön nei multimarca top di gamma. La predilezione dei giapponesi per questo brand, sinonimo di eleganza dinamica, modernista, timeless e scevra di orpelli, viene da lontano: già negli anni’70 dal Sol Levante arrivò la richiesta di stipulare svariati contratti di licenza con questa promettente griffe tricolore, la prima a essere importata nella patria dei samurai e di Mishima. La stilista dalmata ha fatto breccia nel cuore dei giapponesi per questa sua entusiastica adesione a un ideale di bellezza classico ma assoluto. Negli anni’80 la Mila Schӧn Japan siglava biancheria intima, penne, orologi, saponi, beachwear, valigeria e perfino i kimono, oltre a un contratto decennale per il prȇt-à-porter. Inoltre il Sol Levante era il secondo mercato del marchio e negli anni d’oro della maison i buyer giapponesi elevavano ordini ‘al buio’. 

In Cover: Ph. Ugo Mulas